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Fra i grandi cambiamenti che hanno coinvolto l’Italia enoica degli ultimi vent’anni, i vini bianchi sono stati forse fra i protagonisti più dinamici.
Se, infatti, fino agli anni novanta i bianchi del Belpaese erano visti come prodotti immediati e da bere giovani (e lo sono tuttora nell’immaginario del consumatore medio), la stampa di settore e gli operatori internazionali hanno iniziato a rivalutarli anche sul lungo tempo.
Tecnica d’avanguardia
Merito sicuramente di una tecnologia migliorata col tempo, che affianca tecniche di vigneto e di cantina volte a valorizzare i profumi, mantenere l’acidità assicurando così longevità, preservare le caratteristiche territoriali e varietali.
Raccolte differenziate, ghiaccio secco, pigiature e pressature soffici, crio-macerazione, stabulazione dei mosti, gestione ragionata della fermentazione malolattica, della solforosa e del legno piccolo – anche se già ad inizio degli anni Ottanta alcuni produttori ne facevano uso – utilizzo di biotecnologie di ultima generazione come lieviti e batteri selezionati, nutrienti organici e tannini antiossidanti.
Stereotipi ormai vecchi
Così, già qualche anno fa anche la stampa estera ha iniziato a parlare di vini italiani che sanno invecchiare con grazia.
Il regno della longevità non è più riservato solo agli Chablis e ai Sancerre, ai Pouilly-Fumé e ai Riesling.
Ne parla Kerin O’ Keefe in un suo articolo del 2014 intitolato per l’appunto Ageing Gracefully, sottotitolo These Italian white wines defy the drink-now stereotipe e rompe lo stereotipo dei vini italiani da bersi giovani anche Micheal Apstein in un suo articolo, sempre del 2014, che recita: Age-Worthy Italian Wine is not an oxymoron.
Fra le ragioni di questa poca considerazione va rintracciata anche la difficoltà nel trovare vini bianchi italiani invecchiati in enoteca, alle aste o nelle carte dei ristoranti, soprattutto quelle del Belpaese, che fino a qualche anno fa prediligevano i rossi: più facile trovare un Roero Arneis del 2004 dei Fratelli Brovia a New York al The Spotted Pig nel West Village che non in Piemonte.
Regioni simbolo
A dimostrare la tempra del vino bianco nel Belpaese sono regioni storiche e meno storiche; immancabile il Friuli Venezia Giulia, con i suoi grandissimi bianchi che negli anni Novanta già facevano parlare di sé nella Grande Mela.
Ecco anche il Soave che nell’ultimo decennio ha saputo attirare l’attenzione sui proprio prodotti grazie alla valorizzazione della componente vulcanica e della tenuta nel tempo con degustazioni ad hoc che hanno coinvolto numerosa stampa estera, contribuendo a far alzare i recettori nei confronti dell’intero territorio italiano.
Imprescindibile anche il Verdicchio, sia di Matelica – che proprio lo scorso 21 luglio ha festeggiato i 50 anni della Doc – ma anche la versione dei Castelli di Jesi.
Circa cinque anni fa Il Consorzio Tutela Vini Marchigiano aveva realizzato la degustazione di vecchie annate invecchiate nelle Grotte di Frasassi, con risultati notevoli. I bianchi da invecchiamento sono diventati anche il vessillo della rinascita del Meridione enoico: qualsiasi degustazione volta a indagare la longevità dei bianchi non può tralasciare il Fiano e il Greco di Tufo della Campania, come anche certi Etna Bianco della Sicilia.
E se sinora si è parlato di vitigni autoctoni, non si possono non menzionate le declinazioni di Chardonnay della Val d’Aosta come pure l’interpretazione umbra del Cervaro della Sala.
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